a cura di michela bettuzzi
foto adele
Arrivo all’Hanabi con largo anticipo, ma un pubblico di fedelissimi ha già occupato tutte le sedie disponibili, e prima che sia troppo tardi guadagno la mia postazione a terra a pochi centimetri dal palco.
Gli Shearwater arrivano e dalla mia posizione privilegiata mi rendo subito conto che questa sera sarà diversa dalle precedenti in cui ho avuto la fortuna di vederli suonare. Sarà la spiaggia, sarà l’agosto mediterraneo, sarà il vino o forse il cibo, fatto sta che hanno tutti un sorriso rilassato che non gli ho mai visto prima, ed è un bello spettacolo. Non so dire se la loro musica stasera ne sia stata influenzata, dopo pochi minuti di concerto sono troppo coinvolta per pormi domande e fare confronti.
Questo gruppo, scoperto da me per caso per la prima volta più di un anno fa in un locale londinese, mi conquista oggi come fece allora: credo si tratti di quel genere di band che debba essere vista dal vivo per poterne comprendere le potenzialità, lasciandosi ammaliare dalla splendida voce di Jonathan Meiburg, dalle loro capacità di strumentisti sopra la media, dalla assoluta coesione di tutti che, agili e rilassati, si muovono all’unisono sul palco scambiandosi continuamente di posto e di ruolo. Il percussionista Thor Harris (che si presenta, capello selvaggio e fluente, in gilé senza maniche con braccia pelose, ma ha un curriculum di tutto rispetto, parlo di Bill Callahan e The Angels of Light, per citarne un paio – oddio, non che le braccia pelose abbiano niente a che vedere con i curriculum) ad un certo punto scandisce un ritmo un po’ troppo frenetico per un brano già piuttosto serrato e Meiburg suda e quasi si sfinisce per stargli dietro. Loro se la ridono e noi si va in sollucchero
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